La dirigenza pubblica statale è disciplinata dal d.lgs. 165/2001, le cui disposizioni sono in parte il risultato della evoluzione normativa inaugurata nel 1972 dal d.P.R. 748, in parte il frutto delle modifiche e delle novità apportate dalla l. 145/2002.
Per effetto delle norme surrichiamate la dirigenza pubblica ha conquistato sempre maggiori spazi di autonomia.
Innanzi tutto nell'ottica di liberarsi dal rapporto di subordinazione gerarchica che intercorreva tra Ministri e dirigenti, che di certo non era neanche conforme al principio di imparzialità cui la P.A. deve attenersi in virtù dell'art. 97 della Costituzione.
Per effetto delle norme via via succedutesi nel tempo, dunque, i poteri di ingerenza dei Ministri nella attività dei dirigenti sono stati sensibilmente ridotti e al tradizionale rapporto di stretta subordinazione gerarchica si è sostituito il rapporto di direzione.
Frutto di questa nuova relazione è il d. lgs. 165/2001 che ha ridisegnato i rapporti fra dirigenti e Ministri individuando i poteri che residuano in capo ai Ministri e quelli che, invece, spettano ai dirigenti, ai quali è riservata l'attività gestionale e l'adozione di atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno.
I tradizionali poteri spettanti ai Ministri, consistenti nella possibilità di revoca e riforma degli atti dirigenziali, dunque, sono stati, invece, esplicitamente eliminati; la sostituzione del rapporto gerarchico con un rapporto di direzione non poteva che implicare la cancellazione di tutti i poteri che consentivano ai Ministri di ingerirsi nel merito delle scelte amministrative.
Per lo stesso motivo, è stato eliminato anche il potere di avocazione, in quanto idoneo a consentire l'invasione da parte della politica nelle sfere di competenze riservate alla dirigenza art. 14, comma 3 d. lgs. 156/2001.
La limitazione dei poteri di ingerenze dei Ministri nelle attività dirigenziali non significa, tuttavia, che non residuino taluni poteri di intervento come, ad esempio, la possibilità del ministro di sostituire mediante commissario ad acta il dirigente inerte o il dirigente responsabile di grave inosservanza delle direttive, ex art. 14 comma 3 d. lgs. 165/2002, o il potere ministeriale di annullamento degli atti dirigenziali per motivi di legittimità.
Il Legislatore ha, dunque, trasformato la dirigenza dello Stato da mero esecutore delle disposizioni degli organi politici in strumento di raccordo tra l'attività politica e quella della P.A.
Logica corollario di tale principio è una sempre maggiore responsabilizzazione della dirigenza pubblica cui ha fatto seguito l'instaurazione di una rete di controlli.
Ulteriore novità introdotta nella disciplina della dirigenza pubblica dalla l. 145/2002 è il regime di cessazione semi-automatica degli incarichi dirigenziali di vertice.
Al fine di assicurare un rapporto sereno tra il nuovo esecutivo e la classe dirigenziale, nel sistema vigente è previsto che gli incarichi apicali conferiti dal Governo o dai Ministri nel corso dei sei mesi antecedenti la scadenza naturale del Governo possono essere revocati, confermati, modificati o rinnovati entro sei mesi dal voto sulla fiducia al nuovo Governo ex art. 6 l. 165/2002.
Medesima la ratio dell'art. 19 co. 8 d. lgs. 165/2002, così come sostituito dall'art. 3 l. 145/2002, secondo cui gli incarichi di Segretario generale, di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente decadono automaticamente decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al nuovo Governo, il cosiddetto fenomeno di spoil system. La nuova disciplina, infatti, è diretta a consentire al nuovo Governo di sostituire i preposti agli incarichi suddetti ed è giustificata dalla stretta connessione intercorrente tra i dirigenti cui sono affidati incarichi apicali di cui all'art. 19, comma 3 d. lgs. 165/200 e i vertici della struttura statale.
La legittimità di tale sistema è stata rimessa al vaglio della Corte Costituzionale. La giurisprudenza di merito ha, infatti, evidenziato che in tal modo la riforma finiva con il contrastare la propria ratio ispiratrice, ossia con l'esigenza di distinguere tra politica ed amministrazione, nonché con i principi costituzionali di buon andamento e di imparzialità di cui all'art. 97 Cost. Il nuovo meccanismo, infatti, subordina la decadenza dall'incarico ad un evento oggettivo, cioè l'insediamento di un nuovo Governo e non, eventualmente, all'inidoneità all'incarico. Esso, inoltre, introduce un elemento di precarietà nel rapporti di lavoro dei dirigenti di cui al comma 3 art. 19, elemento che appare incompatibile con il comma 2 dello stesso articolo il quale, imponendo la predeterminazione della durata di ciascun incarico dirigenziale nel rispetto dei limiti temporali fissati dal Legislatore ma comunque in relazione agli obiettivi da realizzare, sembra non lasciare alcuno spazio alla vigenza di un meccanismo di decadenza automatica degli incarichi apicali.
La Corte Costituzionale è intervenuta con le sentenze n. 103 e 104 del 2007.
La sentenza n. 103 del 2007 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 nella parte in cui dispone che "i predetti incarichi cessano il sessantesimo giorno dalla data di entrata in vigore della presente legge, esercitando i titolari degli stessi in tale periodo esclusivamente le attività di ordinaria amministrazione". Tale disposizione, infatti, determinando una interruzione automatica del rapporto di ufficio ancora in corso prima dello spirare del termine stabilito, viola in carenza di garanzie procedimentali, i principi di continuità dell'azione amministrativa e del buon andamento dell'azione stessa. Le recenti leggi di riforma della pubblica amministrazione hanno disegnato un nuovo modulo di azione che misura il rispetto del canone dell'efficacia e dell'efficienza alla luce dei risultati che il dirigente deve perseguire, nel rispetto degli indirizzi posti dal vertice politico, avendo a disposizione un periodo di tempo adeguato. E' evidente dunque, come afferma la Corte, che la previsione di una anticipata cessazione ex lege del rapporto in corso impedisce che l'attività del dirigente possa espletarsi in conformità al modello di azione sopra indicato. La revoca delle funzioni legittimamente conferite ai dirigenti può essere conseguenza solo di una accertata responsabilità dirigenziale in presenza di determinati presupposti e all'esito di un procedimento di garanzia puntualmente disciplinato.
L'esistenza di una fase preventiva valutativa si presenta necessaria ed essenziale per assicurare il rispetto dei principi del giusto procedimento, all'esito del quale dovrà essere adottato un atto motivato che, a prescindere dalla sua natura giuridica, di diritto pubblico o di diritto privato, consenta comunque un controllo giurisdizionale. Ciò al fine di garantire scelte trasparenti e verificabili in grado di consentire la prosecuzione dell'attività gestoria in ossequio al precetto costituzionale della imparzialità dell'azione amministrativa. Inoltre la durata minima degli incarichi dirigenziali, come ribadisce la Corte, non può essere eccessivamente breve perché ciò sarebbe "indice di una possibile precarizzazione della funzione dirigenziale". La dipendenza funzionale dei dirigenti dello Stato non può diventare dipendenza politica.
Con la sentenza n. 104 del 2007 la Corte ha dichiarato l'incostituzionalità delle norme di due leggi regionali, del Lazio e della Sicilia, riguardanti dirigenti di Asl e aziende ospedaliere e di enti regionali. La legge della Regione Lazio n. 9 del 2005 in combinato disposto con l'art. 55, comma 4 della Legge Regione Lazio n. 1/2004 è stata dichiarata illegittima nella parte in cui prevede che i direttori generali delle Asl decadono dalla carica il novantesimo giorno successivo alla prima seduta del Consiglio regionale, salvo conferma con le stesse modalità previste per la nomina; e la Legge Regionale Siciliana 26 marzo 2002, n. 2 all'art. 96, nella parte in cui prevede che gli incarichi già conferiti con contratto possono essere revocati entro 90 giorni dall'insediamento del dirigente generale nella struttura cui lo stesso è preposto.
Queste disposizioni, ad avviso della Corte, violano l'art. 97 della Costituzione sotto il duplice profilo della imparzialità e del buon andamento dell'amministrazione.
L'art. 97 Cost. sottopone gli uffici pubblici ad una riserva relativa di legge, sottraendoli all'esclusiva disponibilità del Governo; il principio di imparzialità costituisce un valore essenziale cui deve informarsi l'organizzazione dei pubblici uffici;
La Corte ha poi affermato che gli artt. 97 e 98 Cost. sono corollari dell'imparzialità, in cui si esprime la distinzione tra politica e amministrazione, tra l'azione del Governo e l'azione amministrativa che, "nell'attuazione dell'indirizzo politico della maggioranza, è vincolata invece ad agire senza distinzione di parti politiche, al fine del perseguimento delle finalità pubbliche obbiettivate dall'ordinamento". ( sentenza n. 333 del 1993 ). Di conseguenza la selezione dei pubblici funzionari non ammette ingerenze di carattere politico. L'imparzialità e il buon andamento dell'amministrazione esigono che la posizione del direttore generale sia circondata da garanzie; in particolare, che la decisione dell'organo politico relativa alla cessazione anticipata dall'incarico del direttore generale di Asl rispetti il principio del giusto procedimento. I principi di legalità, di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione, insieme al diritto di difesa e alla separazione dei poteri costituiscono principi indissolubili ed imprescindibili del nostro ordinamento.
Nel nuovo sistema del lavoro contrattuale alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, la qualifica dirigenziale non esprime più una posizione lavorativa inserita nell'ambito di una carriera e caratterizzata dallo svolgimento di determinate mansioni, bensì esclusivamente l'idoneità professionale del dipendente - che tale qualifica ha acquisito mediante il contratto di lavoro stipulato all'esito della prevista procedura concorsuale - a svolgerle concretamente per effetto del conferimento, a termine, di un incarico dirigenziale (essendo sancita espressamente l'inapplicabilità dell'art. 2103 c.c. al lavoro pubblico dirigenziale) (Cassazione civile, sez. lav., 20 marzo 2004, n. 5659).
Sono assoggettati al regime di onnicomprensività retributiva tutti gli incarichi conferiti ai dirigenti pubblici in ragione dell'ufficio o su designazione dell'amministrazione di appartenenza - ossia strettamente connessi alla pubblica funzione esercitata o svolti sulla base di una valutazione discrezionale in ordine alle qualità professionali possedute dal soggetto che dovrà rappresentare l'amministrazione stessa e curare gli interessi pubblici ad essa istituzionalmente affidati (quali la partecipazione agli organi di enti diversi, o a particolari commissioni) -, trattandosi di attività connesse in maniera più o meno diretta al rapporto organico tra dipendente pubblico ed amministrazione, il cui svolgimento può, fra l'altro, riflettersi direttamente sul raggiungimento degli obiettivi assegnati al medesimo dirigente (Cons. Stato comm. spec., 04 maggio 2005, n. 173).
Sono assoggettati al regime di onnicomprensività retributiva dei dirigenti pubblici gli incarichi ulteriori rispetto a quelli svolti su designazione o in ragione dell'ufficio, comunque conferiti al dirigente dall'amministrazione di appartenenza, anche intuitu personae, non rilevando il carattere non continuativo dell'impegno richiesto (Cons. Stato comm. spec , 04 maggio 2005, n. 173).
I principi e le regole proprie degli atti amministrativi non trovano applicazione agli atti di conferimento degli incarichi dirigenziali nelle pubbliche amministrazioni, ai quali deve riconoscersi - avuto riguardo alla disciplina dell'art. 19 d.lg. n. 165, cit., sia nel testo originario, che in quello modificato dalla l. n. 145 del 2002 - natura di determinazione assunta con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro, esulandosi dall'ambito delle procedure concorsuali riservate al diritto pubblico, con la conseguenza di ricondurre le situazioni giuridiche dei dipendenti con qualifica dirigenziale di fronte al potere di conferimento dell'incarico al novero dei c.d. "interessi legittimi di diritto privato" (Cassazione civile, sez. lav., 22 dicembre 2004, n. 23760).
Gli atti di conferimento di incarichi dirigenziali, ex art. 19 d.lg. 30 marzo 2001 n. 165, esulano dall'ambito delle procedure concorsuali riservate al diritto pubblico; e, pertanto, le situazioni giuridiche dei dipendenti con qualifica dirigenziale di fronte al potere di conferimento rientrano nel novero dei cd. interessi legittimi di diritto privato, ascrivibili pur sempre alla categoria dei diritti di cui all'art. 2907 c.c. (Cassazione civile, sez. lav., 22 dicembre 2004, n. 23760).
L'atto di conferimento di un incarico dirigenziale nelle pubbliche amministrazioni a struttura unilaterale e non recettizio, ha natura di determinazione assunta con la capacità e i poteri del datore di lavoro privato, la cui adozione rileva esclusivamente sul piano dell'organizzazione e ai fini dei controlli interni (Cassazione civile, sez. lav., 20 marzo 2004, n. 5659).
Le nomine degli organi di vertice delle amministrazioni sia centrali che locali si configurano come provvedimenti da adottare in base a criteri eminentemente fiduciari, riconducibili nell'ambito degli atti di "alta amministrazione", in quanto espressione della potestà di indirizzo e di governo delle autorità preposte alle amministrazioni stesse; tuttavia, il singolo provvedimento di nomina, comportando una scelta nell'ambito di una categoria di determinati soggetti in possesso di titoli specifici, deve esporre le ragioni che hanno condotto alla nomina di uno di essi, anche se la motivazione della scelta - effettuata "intuitu personae" - da formularsi all'esito di un apprezzamento complessivo del candidato e senza alcuna valutazione comparativa rispetto agli altri aspiranti, comporta soltanto la necessità di comprovare l'avvenuta valutazione del possesso dei prescritti requisiti del prescelto, in modo che possa dimostrarsi la ragionevolezza della scelta effettuata (Consiglio Stato, sez. IV, 25 maggio 2005, n. 2706).
Gli incarichi dirigenziali che, nelle amministrazioni dello Stato e degli enti pubblici, è consentito conferire ad esperti esterni muniti di "particolare e comprovata qualificazione professionale" ovvero di "particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica", desumibile anche da esperienze di lavoro maturate presso amministrazioni statali, non possono essere attribuiti a dipendenti della stessa amministrazione che conferisce l'incarico (Cons. Stato comm. spec., 27 febbraio 2003, n. 514).
In materia di incarichi dirigenziali, il legislatore ha operato una netta distinzione tra il momento provvedimentale di preposizione agli uffici e momento negoziale di definizione del trattamento economico; il contratto individuale accede, ossia entra a far parte del provvedimento di attribuzione delle funzioni dirigenziali, che attiene al momento dell'investitura pubblica e della sua rilevanza nei confronti dei terzi (Corte Conti Sez. contr. Lazio 14.5.2004 n. 3).
Va dichiarato inammissibile il ricorso dinanzi al Giudice amministrativo per difetto di giurisdizione, nel caso di impugnazione di atto di conferimento di incarico dirigenziale, rientrando la controversia nella competenza del giudice ordinario ai sensi dell'art. 63 del D. Lgs.vo n. 165/2001 (T.A.R. Sicilia Catania, sez. VI, 08 novembre 2008, n. 2036).
Nel settore pubblico il potere dell'amministrazione di esonerare un dirigente dall'incarico e di risolvere il relativo rapporto di lavoro è circondato da garanzie e limiti volti a tutelare l'imparzialità e il buon andamento. Pertanto, una volta dichiarata costituzionalmente illegittima una norma che prevede ipotesi di decadenza automatica del dirigente, l'eventuale ristoro economico non attenua in alcun modo il pregiudizio arrecato dalla rimozione all'imparzialità e al buon andamento della p.a. (Corte costituzionale, 24 ottobre 2008, n. 351).
In materia di medici convenzionati, va escluso che nell'ordinamento sia rinvenibile un principio generale, ancorché settoriale, di assimilazione delle prestazioni svolte presso enti sanitari dai medici in base a convenzioni, ex art. 48 legge n. 833 del 1978, a quelle rientranti nell'ambito del rapporto di pubblico impiego, attesa l'assenza nei rapporti d'opera professionale (pur caratterizzati da collaborazione coordinata e continuativa) del requisito della subordinazione, dovendosi ritenere che le disposizioni che estendono l'applicabilità della normativa del pubblico impiego con equiparazione alle prestazioni subordinate abbiano carattere speciale ed eccezionale e siano insuscettibili di essere applicate al di fuori dei casi considerati. Conseguentemente, il d.P.C.m. 8 marzo 2001 - che individua i criteri per la valutazione, ai fini dell'inquadramento nei ruoli della dirigenza sanitaria, del servizio prestato dagli specialisti ambulatoriali - nel trovare la sua fonte primaria nell'art. 8, comma 8, del d.lg. n. 502 del 1992, nonché nel successivo atto di indirizzo e coordinamento emanato ai sensi dell'art. 8 della legge n. 59 del 1997, può trovare applicazione esclusivamente per il personale convenzionato inquadrato nella qualifica di dirigente del servizio sanitario nazionale ai sensi dell'art. 34 della legge n. 449 del 1997, e non essere estesa ai dirigenti sanitari in genere, già a rapporto di impiego, che vantino servizi convenzionali anteriormente all'assunzione (Cassazione civile, sez. lav., 29 luglio 2008, n. 20581).
È da considerare illegittima la condotta degli amministratori e del direttore generale di un ente locale che hanno conferito l'incarico di dirigente a tempo determinato ex art. 110, d.lg. n. 267 del 2000 ad un soggetto privo della cittadinanza italiana, in violazione dei principi costituzionali e delle norme primarie in materia di pubblico impiego (C.Conti reg. Lombardia, sez. giurisd., 20 giugno 2008, n. 420).
Rientra nella giurisdizione del g.o. la controversia per l'accertamento del diritto alla costituzione del rapporto di lavoro promossa da un candidato utilmente collocato nella graduatoria finale, ritualmente approvata, di un concorso per l'assunzione di dirigente amministrativo presso una azienda ospedaliera. L'espletamento della procedura concorsuale, con la compilazione della graduatoria finale e la sua approvazione, infatti, fa nascere nel candidato utilmente collocato il diritto soggettivo all'assunzione ove l'amministrazione, una volta coperti i posti messi a concorso, si sia determinata ad ampliare la pianta organica per la qualifica richiesta e - senza procedere ad un nuovo concorso - a coprire gli ulteriori posti vacanti, in parte con lo scorrimento della graduatoria del concorso già espletato e, in parte, con ricorso alla mobilità interna (mediante trasferimento di una unità da altra azienda ospedaliera), dovendosi riferire tale decisione alla gestione del rapporto di lavoro successiva all'approvazione della graduatoria e all'esaurimento della procedura concorsuale (Cassazione civile, sez. un., 04 aprile 2008, n. 8736).