Le ipotesi di cessazione del rapporto per volontà dell'amministrazione sono da ricollegare al licenziamento disciplinare, alla sopravvenuta inidoneità fisica del dipendente, al licenziamento per giustificato motivo oggettivo ex art. 3 della legge 15 luglio 1966 n. 604, al superamento del periodo di comporto.
Le cause di cessazione riconducibili all'iniziativa del lavoratore sono le dimissioni, di cui una ipotesi specifica e costituita dal collocamento a riposo a domanda con fruizione della pensione di anzianità.
Quanto alle dimissioni volontarie dei dipendenti va evidenziato come i loro effetti si producono automaticamente, senza bisogno di apposite dichiarazioni di volontà.
L'istituto del recesso dal rapporto di lavoro non va considerato nell'ambito di una disciplina meramente punitiva, bensì come istituto di carattere generale cui ricorrere in presenza di determinate situazioni tali da non consentire la prosecuzione del rapporto precedentemente instaurato e quindi anche in presenza di fatti e comportamenti, pure estranei alla prestazione lavorativa, di gravità tale da far venir meno l'"intuitus fiduciae" che impronta di sè la relazione tra il datore di lavoro ed il lavoratore (Consiglio Stato, sez. V, 15 ottobre 2003, n. 6313).
Nell'ambito del rapporto di lavoro contrattualizzato ed all'indomani dell'obbligo per ogni amministrazione di concludere i procedimenti con un provvedimento formale (ex art. 2 l. 7 agosto 1990 n. 241), deve escludersi in radice, per ineludibili esigenze di certezza dei rapporti giuridici ed a salvaguardia degli interessi pubblici coinvolti nella fattispecie, che l'estinzione del rapporto di servizio e di impiego pubblico possa avvenire tacitamente, dovendosi invece ritenere sempre necessaria una determinazione espressa che risolva il rapporto in termini di decadenza, dispensa, destituzione – all'esito del giudizio disciplinare – collocamento in quiescenza, ricorrendone tutti i presupposti di legge (C.d.S. Sez. IV 20.11.2000 n. 6181).
La impugnazione di provvedimento con cui viene accolta la domanda di dimissioni non incide sulla giurisdizione della Corte dei conti a decidere sulle questioni di natura pensionistica: le dimissioni hanno il solo effetto di estinguere il rapporto di pubblico impiego, limitandosi ad accogliere la domanda del dipendente (Consiglio Stato, sez. IV, 22 giugno 2004, n. 4376).
Deve distinguersi tra le questioni attinenti ai ritardi dell'amministrazione nella accettazione delle dimissioni dell'impiego o di altre questioni sulla accettazione medesima (quale la tardività della stessa), di ammissibilità o formalizzazione della domanda di dimissioni, revoca, efficacia temporale, retroattività, devolute alla giurisdizione del giudice del rapporto (che si estende fino alla estinzione dello stesso), dalla giurisdizione che investe il "quantum" pensionistico, devoluto alla Corte dei conti (Consiglio Stato, sez. IV, 22 giugno 2004, n. 4376).
La Corte dei conti, terzo giudice del pubblico impiego, non può esaminare, neanche incidentalmente, la legittimità dei provvedimenti amministrativi incidenti sullo "status" giuridico ed economico conseguito dal dipendente nel rapporto di servizio, anche se essi costituiscono il presupposto indispensabile per la liquidazione e la misura della pensione (Consiglio Stato, sez. IV, 22 giugno 2004, n. 4376).
Un provvedimento gravemente lesivo, quale l'annullamento d'ufficio dell'atto di nomina a pubblico impiego, richiede la valutazione e comparazione degli interessi coinvolti, qualora l'atto viziato abbia prodotto da tempo i suoi effetti, abbia instaurato rapporti ed abbia ingenerato affidamenti ed aspettative (Cons.giust.amm. Sicilia, sez. giurisd., 20 aprile 1998, n. 242).
Il dipendente pubblico (nella specie, veterinario in servizio presso una Asl) che abbia goduto del beneficio, riconosciutogli dal regolamento organico dell'ente di provenienza, di essere trattenuto in servizio fino all'età di settant'anni, e quindi oltre il limite di sessantacinque anni normalmente previsto dal predetto regolamento per il collocamento a riposo del personale appartenente alla sua qualifica, non ha diritto ad essere trattenuto in servizio per l'ulteriore periodo di due anni, in applicazione dell'art. 16, comma 1, d.lg. 30 dicembre 1992 n. 503, in quanto in tale materia non può aver luogo il cumulo di benefici (Cassazione civile, sez. lav., 14 dicembre 2004, n. 23272).