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Tentativo obbligatorio di conciliazione

L'art. 65 del T.U. 165/01 contenente le Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, nell'ottica della contrattualizzazione del pubblico impiego, ha previsto il tentativo obbligatorio di conciliazione, parallelo a quello di cui all'art. 410 c.p.c., per le controversie individuali devolute alla competenza del giudice ordinario.

Anche per le controversie con datore di lavoro pubblico è stata, quindi, introdotta una fase pre-giudiziale del contenzioso.

Anche nel settore del pubblico impiego la conciliazione si inserisce nell'ambito dell'istituto disciplinato dall'art. 410 c.p.c., pur presentando alcuni caratteri di specialità, giustificati dalle persistenti differenze tra lavoro pubblico e privato.

La prima differenza riguarda la competenza territoriale: l'art. 66, co. 1, T.U. 165/01 prevede che il tentativo si svolga "presso la Direzione provinciale del lavoro nella cui circoscrizione si trova l'ufficio cui il lavoratore è addetto, ovvero era addetto al momento della cessazione del rapporto"; ciò in parallelo con la disposizione di cui all'art. 413, co. 5, c.p.c., che non prevede per le controversie di pubblico impiego l'applicazione degli altri fori di cui all'art. 413 c.p.c.

Diverso è poi l'organo che deve gestire la conciliazione: il collegio si istituisce pur sempre presso la Direzione Provinciale del Lavoro, ma è, per così dire, a composizione variabile, in quanto di esso fanno parte il direttore dell'ufficio o un suo delegato, un rappresentante dell'Amministrazione e un rappresentante del lavoratore. La Direzione provinciale ha poi il compito di dare supporto logistico al collegio, mettendogli a disposizione una segreteria tecnica.

Un altro punto riguarda il procedimento. Quello proprio delle conciliazioni nel pubblico impiego è più formalizzato; infatti, sono statuiti espressamente taluni adempimenti che devono essere svolti sia dal lavoratore dipendente che dall'Amministrazione.

L'amministrazione, infatti, entro 30 giorni dal momento in cui riceve, con raccomandata inoltrata dal lavoratore dipendente, la richiesta del tentativo di conciliazione - che deve contenere l'indicazione della pretesa e delle ragioni poste a suo fondamento, anticipando il petitum e la causa petendi - deve presentare le proprie deduzioni scritte, a meno che non intenda aderire alle richieste del lavoratore.

L'Amministrazione pubblica è, infatti, in condizione di valutare la proposta del dipendente prima che questi agisca in giudizio, considerato l'obbligo previsto dall'art. 12 T.U. 165/01 di "organizzare la gestione del contenzioso del lavoro, anche creando appositi uffici, in modo da assicurare l'efficace svolgimento di tutte le attività stragiudiziali e giudiziali inerenti alle controversie".

La fase conciliativa si instaura soltanto nell'eventualità che la p.a. non intenda aderire alla richiesta e quindi abbia presentato le proprie controdeduzioni e nominato il rappresentante in seno al collegio.

La norma prevede inoltre che, se la conciliazione riesce, anche limitatamente ad una parte della pretesa avanzata dal lavoratore, viene redatto separato processo verbale sottoscritto dalle parti e dai componenti del collegio di conciliazione, che costituisce titolo esecutivo, e che, come i verbali di conciliazione dei dipendenti di lavoro privati sottoscritti in sede sindacale od innanzi all'ufficio provinciale del lavoro, è sottratto al regime di impugnabilità di cui all'art. 2113 c.c.

Se, invece, l'accordo non viene raggiunto, il collegio di conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia, proposta, appunto, obbligatoria, e che, se non accettata, viene riassunta nel verbale, con indicazione delle valutazioni espresse dalle parti; il comportamento tenuto dalle parti nella fase conciliativa rileva nel successivo giudizio ai fini del regolamento delle spese. E' espressamente previsto che la conciliazione della lite da parte del funzionario della p.a. delegato a rappresentarla in questa fase in adesione alla proposta formulata dal collegio non può dar luogo a responsabilità amministrativa.

La domanda giudiziale (art. 65, co. 2) "diviene procedibile trascorsi novanta giorni dalla presentazione della richiesta del tentativo di conciliazione". L'allungamento del termine, rispetto a quello indicato dall'art. 410 bis c.p.c., si spiega per la maggiore formalizzazione della conciliazione nel settore pubblico e, in particolare, per gli adempimenti posti a carico delle parti.

Un'ultima disposizione speciale è dettata nell'ultima parte del comma 3 dell'art. 65, secondo cui la parte "contro la quale è stata proposta la domanda" in violazione delle disposizioni sul tentativo obbligatorio di conciliazione, dopo che questo sia stato sperimentato a seguito dell'improcedibilità eccepita tempestivamente o rilevata dal giudice e dopo la successiva procedura di sospensione, fissazione del termine perentorio e riassunzione, "con l'atto di riassunzione o con memoria... può modificare o integrare le proprie difese e proporre nuove eccezioni processuali e di merito, che non siano rilevabili d'ufficio".

La Giurisprudenza ha, poi, elaborato i criteri da utilizzare in subiecta materia ai fini dell'applicazione delle norme sopra richiamate.

Il sistema legislativo vigente non consente al privato di ricorrere al giudice amministrativo in sede di ottemperanza per ottenere l'esecuzione del contenuto dei verbali di conciliazione ex art. 66 d.lg. n. 165 del 2001 (T.A.R. Calabria Catanzaro, sez. II, 19 maggio 2008, n. 522).

È inammissibile il ricorso proposto per l'ottemperanza al verbale di conciliazione previsto dall'art. 66 comma 5, d.lg. 30 marzo 2001 n. 165 non essendo esso provvedimento giurisdizionale, atteso che la commissione di conciliazione non esercita funzioni giurisdizionali ma amministrative, né il visto di esecutività ad esso apposto vale a trasformarlo in atto giurisdizionale (Consiglio Stato, sez. V, 22 ottobre 2007, n. 5480 ).

L'art. 66 d.lg. n. 165 del 2001, relativo al collegio di conciliazione, dispone che ferma restando la facoltà del lavoratore di avvalersi delle procedure di conciliazione previste dai contratti collettivi, il tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all'art. 65 si svolge dinanzi ad un collegio di conciliazione istituito presso la direzione provinciale del lavoro nella cui circoscrizione si trova l'ufficio cui il lavoratore è addetto e se la conciliazione riesce, anche limitatamente ad una parte della pretesa avanzata dal lavoratore, viene redatto separato processo verbale sottoscritto dalle parti e dai componenti del collegio di conciliazione e il verbale è titolo esecutivo; costituisce, pertanto, obbligo dell'amministrazione riconoscere ad aspiranti insegnanti nella graduatoria, il servizio loro riconosciuto in sede di conciliazione; è, pertanto, illegittima una graduatoria nella parte in cui non riconosce agli aspiranti il servizio oggetto del verbale di conciliazione e sussiste l'obbligo per l'amministrazione di adeguarsi in tal senso nella redazione delle future graduatorie (T.A.R. Sicilia Catania, sez. IV, 03 novembre 2006, n. 2125).

Con riferimento al rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, l'art. 6 del contratto collettivo nazionale quadro in materia di procedure di conciliazione e arbitrato del 2001 - del quale la Corte può direttamente accertare il significato (art. 63, comma 5, d.lg. n. 165 del 2001) - va interpretato nel senso che: la previsione dell'impugnazione delle sanzioni disciplinari dinanzi ai collegi arbitrali di disciplina, previsti dall'art. 59 del d.lg. n. 29 del 1993 (ora art. 55 del d.lg. n. 165 del 2001), è limitata solo all'individuazione dei collegi; tali collegi emettono un lodo irrituale ai sensi degli art. 59 bis, 69 e 69 bis del d.lg. n. 29 del 1993 (ora art. 56, 65 e 66 del d.lg. n. 165 del 2001) e 412 ter c.p.c. (come modificato dall'art. 19 del d.lg. n. 387 del 1998); tale lodo non è identificabile con quello rituale di cui all'art. 59, comma 7, d.lg. n. 29 del 1993, trattandosi di lodo previsto dalla contrattazione collettiva; la sua impugnazione è disciplinata dall'art. 412 quater; dovendosi, invece, escludere - sulla base di un interpretazione letterale e sistematica della suddetta norma - che le parti abbiano inteso far rivivere con il contratto quadro l'intero sistema delle impugnazioni riferibile all'art. 59 cit., destinato, secondo la previsione legislativa, a cessare di efficacia proprio con la contrattazione collettiva. Conseguentemente, è inammissibile l'impugnazione del suddetto lodo proposta dinanzi alla Corte d'appello, non essendo possibile la traslatio iudici al tribunale competente (Cassazione civile, sez. lav., 10 ottobre 2005, n. 19679).

In sede di aggiornamento della graduatoria permanente del personale docente degli istituti di istruzione di secondo grado, qualora nel corso della procedura di conciliazione ai sensi dell'art. 66 d.lg. n. 165 del 2001 si sia operato il riconoscimento di un servizio prestato, detto servizio va riconosciuto e valutato a tutti gli effetti (T.A.R. Sicilia Catania, sez. IV, 29 giugno 2005, n. 1084).

L'arbitrato

In alternativa al ricorso al giudice (e, quindi, al processo del lavoro), la controversia può essere definita in sede di arbitrato.

L'art. 412-ter Cod. proc. civ., sotto la rubrica "Arbitrato irrituale previsto dai contratti collettivi", statuisce:

"Se il tentativo di conciliazione non riesce o comunque è decorso il termine previsto per l'espletamento, le parti possono concordare di deferire ad arbitri la risoluzione della controversia, anche tramite l'organizzazione sindacale alla quale aderiscono o abbiano conferito mandato, se i contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro prevedono tale facoltà e stabiliscono: a) le modalità della richiesta di devoluzione della controversia al collegio arbitrale e il termine entro il quale l'altra parte può aderirvi; b) la composizione del collegio arbitrale e la procedura per la nomina del presidente e dei componenti; c) le forme e i modi di espletamento dell'eventuale istruttoria; d) il termine entro il quale il collegio deve emettere il lodo, dandone comunicazione alle parti interessate; e) i criteri per la liquidazione dei compensi agli arbitri. I contratti e accordi collettivi possono, altresì, prevedere l'istituzione di collegi o camere arbitrali stabili, composti e distribuiti sul territorio secondo criteri stabiliti in sede di contrattazione nazionale (...)".

Nell'arbitrato di cui all'art.412-ter c.p.c. le regole procedurali sono fissate dal contratto collettivo e il lodo è impugnabile in unico grado dinanzi al Tribunale in funzione di giudice del lavoro. L'arbitrato è facoltativo; la previsione della sua esperibilità fa salva la possibilità alternativa del ricorso all'Autorità giudiziaria ordinaria.

Il contratto collettivo nazionale quadro in materia di conciliazione ed arbitrato (CCNQ), sottoscritto dall'ARAN e dalle OO.SS. il 23/1/2001, entrato in vigore il 31/1/2001, scaduto il 31/1/2003 e rinnovato a tempo indeterminato ("fino alla stipula di un nuovo accordo quadro in materia") con CCNQ del 24/7/2003, attuando la disposizione del codice, "introduce e disciplina procedure stragiudiziali di conciliazione e arbitrato quale fattore di decongestione e alleggerimento del circuito giudiziario in grado, altresì, di garantire ai lavoratori pubblici e alle amministrazioni una risoluzione celere ed adeguata delle controversie di lavoro, funzionale non solo ad una giustizia realmente efficace ma anche ad una riduzione dei costi sociali ed economici delle controversie stesse. Le pubbliche amministrazioni e le organizzazioni sindacali promuovono l'utilizzo dell'arbitrato ed agevolano il ricorso alle procedure previste dal presente accordo. Le pubbliche amministrazioni, in particolare, ritengono utile, per le ragioni sopra esposte e in considerazione della sperimentalità dell'accordo, privilegiare tale strumento" (art. 1).

Più specificamente va precisato che presso ogni Direzione Regionale del Lavoro opera una camera arbitrale stabile (con una propria segreteria), per il cui funzionamento è responsabile il Direttore della Direzione o un suo delegato (art. 5). Presso la camera arbitrale è depositata la lista degli arbitri designabili in ciascuna Regione. Gli arbitri sono scelti "in base a criteri che ne garantiscano l'assoluta imparzialità e indipendenza" da un gruppo di lavoro permanente denominato "cabina di regìa", del quale fanno parte una rappresentanza dell'ARAN e un rappresentante per ciascuna delle confederazioni sindacali rappresentative (artt. 1 e 5 CCNQ/2001; artt. 1-4 Statuto cabina di regìa, allegato allo stesso CCNQ). Nella lista (degli arbitri) possono essere inclusi: a) docenti universitari e ricercatori confermati di diritto del lavoro e relazioni industriali; b) liberi professionisti con un'esperienza di contenzioso del lavoro non inferiore a cinque anni; c) esperti di metodi di composizione stragiudiziale delle controversie di lavoro che abbiano superato le prove conclusive dei corsi di formazione programmati dalla cabina di regìa; d) ex magistrati con esperienza almeno quinquennale come giudici del lavoro.

Nel giudicare, gli arbitri sono tenuti all'osservanza delle norme inderogabili di legge e di contratto collettivo (art. 4, comma 12). Nel corso della procedura di conciliazione e arbitrato le parti possono farsi assistere, a proprie spese, da esperti di fiducia. L'arbitro può sentire testi e disporre l'esibizione di documenti (art. 4, comma 10). Le parti possono concordare che il procedimento si svolga presso la camera arbitrale regionale oppure presso l'amministrazione a cui appartiene il dipendente (art. 3, comma 5). Tutte le attività di segreteria sono di competenza della camera arbitrale stabile o dell'amministrazione presso la quale si svolge il procedimento (art. 4, comma 14).

La richiesta di arbitrato assume le vesti di una proposta di compromesso che produce effetto in quanto sia (comunicata ed) accettata dalla controparte: la richiesta di compromettere in arbitri la controversia deve essere comunicata con raccomandata A.R. contenente una sommaria prospettazione dei fatti e delle ragioni a fondamento della pretesa. La disponibilità della controparte ad accettarla deve essere comunicata sempre con raccomandata A.R. entro 10 giorni (art. 3, comma 1). L'arbitro dovrà essere designato dalle parti entro i successivi dieci giorni; in caso di mancato accordo, qualora una delle parti non si avvalga della facoltà di revocare il consenso ad attivare la procedura, l'arbitro "sarà designato mediante estrazione a sorte, alla presenza delle parti, nell'ambito della lista dei designabili (...) a cura dell'ufficio di segreteria della camera arbitrale stabile" (art. 3, comma 2). Ciascuna delle parti può rifiutare l'arbitro sorteggiato. Il motivo del rifiuto può essere rappresentato dalla "esistenza di rapporti di parentela o affinità entro il quarto grado con l'altra parte" o da "motivi non sindacabili di incompatibilità personale", ma un secondo rifiuto consecutivo comporta la rinuncia all'arbitrato (rimanendo comunque ferma la possibilità di adire l'autorità giudiziaria: art. 3, comma 3). Il mandato deve, poi, essere accettato: l'atto di accettazione dell'incarico da parte dell'arbitro deve essere depositato, a cura delle parti, presso la camera arbitrale stabile entro cinque giorni dalla designazione comunque effettuata, sotto pena di nullità del procedimento (art. 3, comma 4). Solo con l'accettazione dell'incarico arbitrale si ha l'effettiva (definitiva) instaurazione della procedura.

Quando le parti decidano di ricorrere alle procedure di conciliazione e arbitrato disciplinate dal CCNQ/2001 (e CCNQ/2003), l'arbitro è obbligatoriamente tenuto ad espletare un tentativo di conciliazione che sostituisce e produce i medesimi effetti di quello previsto dall'art.66 D. Lgs. 165/2001, salvo che questo non sia già stato espletato (art. 4, comma 1). L'arbitro è tenuto a svolgere attività di impulso della procedura conciliativa e a porre in essere ogni possibile tentativo per una soluzione concordata e negoziata della controversia (art. 4, comma 4). I commi da 3 a 7 dell'articolo 4 CCNQ/2001 disciplinano puntualmente il tentativo di conciliazione: il tentativo è preceduto dal deposito presso la sede dell'arbitro della documentazione contenente la completa esposizione dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della pretesa nonché della memoria difensiva con la quale l'amministrazione prende posizione in maniera precisa sui fatti affermati dall'istante e propone tutte le sue difese in fatto e in diritto. Parte istante e parte resistente devono effettuare il deposito della documentazione di cui sopra rispettivamente entro il decimo giorno ed il ventesimo giorno dalla data in cui l'arbitro ha accettato la designazione. La comparizione personale delle parti davanti all'arbitro avrà luogo non oltre il trentesimo giorno dalla data in cui l'arbitro ha accettato la designazione. Il tentativo di conciliazione deve esaurirsi entro dieci giorni dalla data di comparizione. Se la conciliazione riesce, si redige processo verbale ai sensi e per gli effetti dell'art. 411, commi 1 e 3, Cod. proc. civ.. Ove la conciliazione non riesca l'arbitro, in funzione di conciliatore formula una proposta, comprensiva di ogni costo, "con gli effetti" di cui al comma 8 dell'art. 66 del D.Lgs.165/01 che, come si è visto statuisce che "La conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica amministrazione (...) non può dar luogo a responsabilità amministrativa". Ove la proposta non venga accettata l'arbitro fissa la prima udienza per la trattazione contenziosa, ossia per il vero e proprio giudizio arbitrale. Se il tentativo obbligatorio di conciliazione è stato espletato ai sensi dell'art.66 D. Lgs. 165/01 la prima udienza dovrà svolgersi entro trenta giorni dalla data di accettazione dell'incarico da parte dell'arbitro. La parte istante dovrà depositare presso la sede dell'arbitro la documentazione contenente la completa esposizione dei fatti e delle ragioni poste a fondamento della pretesa, la parte resistente dovrà depositare la memoria difensiva con la quale prende posizione in maniera precisa sui fatti affermati dall'istante e propone tutte le sue difese in fatto e in diritto. Parte istante e parte resistente sono tenute ad effettuare il deposito delle predette documentazioni rispettivamente entro il decimo giorno ed il ventesimo giorno dalla data in cui l'arbitro ha accettato la designazione (art. 4, comma 2).

L'art.4, comma 9, CCNQ/2001 prevede poi espressamente: "Qualora l'arbitro ritenga che la definizione della controversia dipenda dalla risoluzione in via pregiudiziale di una questione concernente l'efficacia, la validità o l'interpretazione della clausola di un contratto o accordo collettivo nazionale, ne informa le parti e sospende il procedimento. Ove le parti non dichiarino per iscritto ed entro dieci giorni l'intenzione di rimettere la questione all'arbitro e di accettarne la decisione in via definitiva, il procedimento si estingue". Il lodo deve essere sottoscritto dall'arbitro entro sessanta giorni dalla data della prima udienza di trattazione (salvo proroga non superiore a 30 giorni consentita dalle parti) ed entro dieci giorni dalla sottoscrizione deve essere comunicato alle parti mediante raccomandata con avviso di ricevimento (art. 4, comma 11). La parte soccombente è, comunque, tenuta alla corresponsione delle indennità spettanti all'arbitro (art. 4, comma 13), ma nulla è dovuto all'arbitro in caso di inosservanza a lui imputabile dei termini relativi alla sottoscrizione e comunicazione del lodo nonché in caso di inadempienza degli obblighi di comunicazione alla camera arbitrale stabile previsti dal CCNQ/2001 (art. 4, comma 15). Nella pronuncia del lodo arbitrale trova applicazione la norma di cui all'art. 429, comma 3, Cod. proc. civ., ai sensi del quale "Il giudice, quando pronuncia la sentenza di condanna al pagamento di somme di denaro (...) deve determinare, oltre gli interessi nella misura legale, il maggior danno eventualmente subito dal lavoratore per la diminuzione di valore del suo credito, condannando al pagamento della somma relativa con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto" (art.412-ter, comma 3, Cod. proc. civ.). Ai sensi dell'art. 412-quater Cod. proc. civ. "sulle controversie aventi ad oggetto la validità del lodo arbitrale decide in un unico grado il Tribunale, in funzione del giudice del lavoro, della circoscrizione in cui è la sede dell'arbitrato. Il ricorso è depositato entro il termine di trenta giorni dalla notificazione del lodo. Trascorso tale termine, o se le parti hanno comunque dichiarato per iscritto di accettare la decisione arbitrale il giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del lodo arbitrale, lo dichiara esecutivo con decreto".

Anche le sanzioni disciplinari possono essere impugnate mediante richiesta di conciliazione ed arbitrato secondo le disposizioni del CCNQ/2001, mentre i contratti collettivi di comparto e di area potranno individuare particolari tipologie di controversie non deferibili ad arbitri (art. 7).

Per quanto concerne l'impugnazione delle sanzioni disciplinari, l'art.56 del D. Lgs. 165/01 statuisce: "Se i contratti collettivi nazionali non hanno istituito apposite procedure di conciliazione e arbitrato, le sanzioni disciplinari possono essere impugnate dal lavoratore davanti al collegio di conciliazione di cui all'art.66, con le modalità e con gli effetti di cui all'art.7, commi 6 e 7, della legge 20 maggio 1970, n°300". Il Collegio di conciliazione è in tal caso chiamato a svolgere una funzione arbitrale "con le modalità e gli effetti" di cui alla citata disposizione dello Statuto dei lavoratori. Il CCNQ/2001 ha tuttavia "istituito apposite procedure", ergo nella vigenza di tale contratto al Collegio di conciliazione potrà richiedersi esclusivamente l'espletamento del tentativo obbligatorio di conciliazione.

In Giurisprudenza:

Il lodo emesso dal collegio arbitrale di disciplina contemplato dall'art. 6 del contratto collettivo nazionale quadro in materia di procedure di conciliazione ed arbitrato ha natura irrituale ed è impugnabile a norma dell'art. 412 quiater c.p.c. (Cassazione civile, sez. lav., 10 ottobre 2005, n. 19679).

Nel rapporto di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche, l'arbitrato previsto in materia di sanzioni disciplinari dall'art. 59 bis, d.lg. 3 febbraio 1993 n. 20, introdotto dall'art. 28, d.lg. 31 marzo 1998 n. 80 (corrispondente all'art. 56, d.lg. 30 marzo 2001 n. 165), operante a far data dalla stipulazione del primo contratto collettivo di settore, ha natura irrituale ed il lodo è impugnabile ai sensi dell'art. 412 quater, c.p.c., innanzi al tribunale in funzione di giudice del lavoro; diversamente, invece, l'arbitrato previsto dall'art. 59, commi 7 e 8, d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29, come sostituito dall'art. 27, d.lg. 23 dicembre 1993 n. 546, aveva natura rituale ed il lodo era impugnabile, ai sensi dell'art. 828 c.p.c., innanzi al tribunale quale giudice d'appello per le controversie di lavoro e, dopo l'istituzione dell'ufficio del giudice unico di primo grado, innanzi alla Corte d'appello (Cassazione civile, sez. lav., 07 gennaio 2003, n. 44).

In caso di scelta iniziale del lavoratore di avvalersi del collegio arbitrale alla stregua del disposto dell'art. 7, comma 6, l. 20 maggio 1970 n. 300 o dell'art. 5 l. 11 agosto 1973 n. 533, ovvero dell'art. 59, commi 7 e 8, d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29, l'azione rivolta all'accertamento della nullità del licenziamento è esperibile davanti al giudice del lavoro nei limiti ordinari della prescrizione, sempre che il giudizio arbitrale non abbia avuto inizio (ipotesi questa che si verifica nel momento in cui tutti gli arbitri abbiano accettato l'incarico), dovendo l'alternativa tra procedura arbitrale e giudizio ordinario valere sino a quando non sia iniziata la procedura arbitrale e non potendo, conseguentemente, il lavoratore richiamarsi, per impugnare il licenziamento, a detta alternatività quando la procedura arbitrale si sia conclusa con il deposito del lodo, che ha riconosciuto la piena legittimità dell'intimato recesso (Cassazione civile, sez. lav., 26 luglio 2002, n. 11106).

In tema di arbitrato nelle controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, in ragione di una interpretazione letterale delle norme imposta dal tenore delle stesse, gli art. 412 ter e quater c.p.c. vanno applicati unicamente agli arbitrati irrituali previsti dai contratti collettivi. Ne consegue che gli arbitrati rituali - tra i quali va annoverato pure quello regolato dall'art. 59, commi 7, 8 e 9 d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29 - sono disciplinati dalle norme di cui agli art. 827 e ss. c.p.c., sicché competente sull'impugnativa del lodo non è il tribunale nella cui circoscrizione l'arbitrato ha avuto sede, ma la Corte d'appello nella cui circoscrizione è la sede dell'arbitro (Cassazione civile, sez. lav., 24 luglio 2002, n. 10859).

In materia di pubblico impiego privatizzato, nel caso di sanzione disciplinare impugnata dinanzi al collegio arbitrale ai sensi dell'art. 59, comma 7, d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29 (come sostituito dall'art. 27 d.lg. 23 dicembre 1993 n. 546), ai fini del discrimine temporale posto dalla norma transitoria dell'art. 45, comma 17, d.lg. 31 marzo 1998 n. 80 (ora art. 69, comma 7, d.lg. 30 marzo 2001 n. 165) per l'operatività del nuovo criterio di riparto di giurisdizione, deve aversi riguardo alla data di emanazione della decisione arbitrale, la quale costituisce - al pari del provvedimento disciplinare adottato nei confronti del pubblico dipendente - un atto di natura negoziale i cui effetti incidono direttamente sul rapporto di lavoro; deve pertanto affermarsi la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ove tale decisione sia anteriore al 30 giugno 1998 (Cassazione civile, sez. un., 26 giugno 2002, n. 9335).

All'arbitrato contemplato dall'art. 59 d.lg. n. 29 del 1993 può fondamentalmente attribuirsi natura di arbitrato rituale, anche in considerazione del fatto che la rilevanza della distinzione fra arbitrato libero ed arbitrato rituale si è notevolmente attenuata - con simmetrico accrescimento dell'area di riconoscibilità dell'arbitrato rituale - per effetto della riforma del 1994, che reca un sostanziale riconoscimento dell'unitaria natura della decisione arbitrale, quale atto riconducibile, in ogni caso, all'autonomia negoziale ed alla sua legittimazione a derogare alla giurisdizione, per ottenere una privata decisione della lite, basata non sullo "jus imperii", ma solo sul consenso delle parti, sì da non risultare più assimilabile ad una pronuncia giurisdizionale e da collocarsi in posizione del tutto autonoma ed alternativa rispetto al giudizio civile ordinario (Cassazione civile, sez. un., 05 dicembre 2000, n. 1251).

Il rimedio dell'impugnazione avanti al collegio arbitrale di disciplina di cui all'art. 59 comma 7 d.lg. 3 febbraio 1993 n. 29, come richiamato dall'art. 58 comma 9 c.c.n.l., comparto scuola, costituisce rimedio facoltativo utilizzabile in via alternativa o preventiva rispetto alla contestazione giurisdizionale del provvedimento disciplinare; in base al principio generale della prevalenza dello strumento della tutela giurisdizionale si deve allora ritenere che l'impugnazione della sanzione secondo la procedura ex art. 59 cit. non precluda la successiva proposizione del ricorso giurisdizionale (Consiglio Stato, sez. VI, 26 aprile 2002, n. 2249).

Nelle controversie di lavoro con le pubbliche amministrazioni, in mancanza di specifiche norme di coordinamento tra ricorso al collegio arbitrale di disciplina ed impugnazione al g.a. si applicano le regole sui ricorsi amministrativi previste dal d.P.R. n. 1199 del 1971, secondo le quali, in assenza di pronuncia entro novanta giorni dalla proposizione del ricorso, si forma il silenzio rigetto e decorre il termine per la proposizione del ricorso giurisdizionale (Consiglio Stato, sez. V, 20 gennaio 2004, n. 149).

La sospensione della sanzione, in pendenza del giudizio arbitrale ex art. 59 d.lg. n. 29 del 1993 instaurato dal dipendente comunale, ha un senso solo di fronte a sanzioni di natura "conservativa" e non anche a quelle di natura "espulsiva", come il licenziamento senza preavviso, rispetto al quale risulta intrinsecamente incompatibile, perché è inidonea a ripristinare un rapporto di lavoro già cessato a seguito di un provvedimento espulsivo, restando salva, ovviamente, la reintegrazione del dipendente ove il licenziamento si dimostri illegittimo (Consiglio Stato, sez. V, 21 ottobre 2003, n. 6514).

Il ricorso per Cassazione

Una ulteriore innovazione processuale di grande rilievo è costituita dalla previsione di meccanismo di accertamento pregiudiziale sull'efficacia, validità ed interpretazione dei medesimi contratti collettivi.

Recita testualmente l'art. 64 del d.lgs. 165/2001:

"1. Quando per la definizione di una controversia individuale di cui all'articolo 63, è necessario risolvere in via pregiudiziale una questione concernente l'efficacia, la validità o l'interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale, sottoscritto dall'ARAN ai sensi dell'articolo 40 e seguenti, il giudice, con ordinanza non impugnabile, nella quale indica la questione da risolvere, fissa una nuova udienza di discussione non prima di centoventi giorni e dispone la comunicazione, a cura della cancelleria, dell'ordinanza, del ricorso introduttivo e della memoria difensiva all'ARAN.

2. Entro trenta giorni dalla comunicazione di cui al comma 1, l'ARAN convoca le organizzazioni sindacali firmatarie per verificare la possibilità di un accordo sull'interpretazione autentica del contratto o accordo collettivo, ovvero sulla modifica della clausola controversa. All'accordo sull'interpretazione autentica o sulla modifica della clausola si applicano le disposizioni dell'articolo 49. Il testo dell'accordo è trasmesso, a cura dell'ARAN, alla cancelleria del giudice procedente, la quale provvede a darne avviso alle parti almeno dieci giorni prima dell'udienza. Decorsi novanta giorni dalla comunicazione di cui al comma 1, in mancanza di accordo, la procedura si intende conclusa.

3. Se non interviene l'accordo sull'interpretazione autentica o sulla modifica della clausola controversa, il giudice decide con sentenza sulla sola questione di cui al comma 1, impartendo distinti provvedimenti per l'ulteriore istruzione o, comunque, per la prosecuzione della causa. La sentenza è impugnabile soltanto con ricorso immediato per Cassazione, proposto nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione dell'avviso di deposito della sentenza. Il deposito nella cancelleria del giudice davanti a cui pende la causa di una copia del ricorso per cassazione, dopo la notificazione alle altre parti, determina la sospensione del processo.

4. La Corte di cassazione, quando accoglie il ricorso a norma dell'articolo 383 del codice di procedura civile, rinvia la causa allo stesso giudice che ha pronunciato la sentenza cassata. La riassunzione della causa può essere fatta da ciascuna delle parti entro il termine perentorio di sessanta giorni dalla comunicazione della sentenza di cassazione. In caso di estinzione del processo, per qualsiasi causa, la sentenza della Corte di cassazione conserva i suoi effetti.

5. L'ARAN e le organizzazioni sindacali firmatarie possono intervenire nel processo anche oltre il termine previsto dall'articolo 419 del codice di procedura civile e sono legittimate, a seguito dell'intervento alla proposizione dei mezzi di impugnazione delle sentenze che decidono una questione di cui al comma 1. Possono, anche se non intervenute, presentare memorie nel giudizio di merito ed in quello per cassazione. Della presentazione di memorie è dato avviso alle parti, a cura della cancelleria.

6. In pendenza del giudizio davanti alla Corte di cassazione, possono essere sospesi i processi la cui definizione dipende dalla risoluzione della medesima questione sulla quale la Corte è chiamata a pronunciarsi. Intervenuta la decisione della Corte di cassazione, il giudice fissa, anche d'ufficio, l'udienza per la prosecuzione del processo.

7. Quando per la definizione di altri processi è necessario risolvere una questione di cui al comma 1 sulla quale e già intervenuta una pronuncia della Corte di cassazione e il giudice non ritiene di uniformarsi alla pronuncia della Corte, si applica il disposto del comma 3.

8. La Corte di cassazione, nelle controversie di cui è investita ai sensi del comma 3, può condannare la parte soccombente, a norma dell'articolo 96 del codice di procedura civile, anche in assenza di istanza di parte."

Tale azione è, dunque, divenuta nella versione finale, anche una misura deflattiva dal momento che con essa si tende a rendere uniforme l'interpretazione e l'applicazione dei contratti collettivi e quindi a contenere il contenzioso c.d. di serie, sull'interpretazione e l'applicazione dei medesimi.

Con riferimento alle controversie relative ai rapporti di pubblico impiego privatizzato, quando è necessario risolvere in via pregiudiziale una questione concernente l'efficacia, la validità o l'interpretazione delle clausole di un contratto o accordo collettivo nazionale ai sensi dell'art. 64 del d.lg. n. 165 del 2001, affinché l'accordo sull'interpretazione autentica (o sulla modifica) della clausola controversa abbia efficacia - sostituendosi sin dall'inizio della vigenza del contratto ex art. 49 dello stesso d.lg. - è necessario il consenso di tutte le parti firmatarie del contratto collettivo da interpretare (o da modificare), stante il carattere sostanzialmente novativo di tale attività negoziale rispetto al contratto vigente; mentre, un'interpretazione della norma volta a dare rilievo alla rappresentatività sindacale (ex art. 43 dello stesso testo normativo) sarebbe incompatibile con la natura conciliativa del procedimento e con l'effetto "ex tunc" dell'accordo previsto dal suddetto art. 49. (Nella specie la Corte di cassazione ha confermato la sentenza non definitiva, emessa ai sensi dell'art. 64, comma 3, cit., secondo la quale, mancando il consenso di tutte le parti firmatarie del contratto collettivo da interpretare, non poteva ritenersi eliminata consensualmente l'incertezza della clausola contrattuale in contestazione) (Cassazione civile, sez. lav., 18 aprile 2005, n. 7932).

Quando la Corte di cassazione accoglie il ricorso per violazione e falsa applicazione dei contratti e degli accordi collettivi del pubblico impiego privatizzato, se non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto, decide la causa nel merito applicando in via analogica l'art. 384, comma 1, c.p.c., atteso che sarebbero contraddetti i principi di ragionevolezza ed economicità se la Corte cassasse con rinvio nei casi in cui la decisione del merito della causa dipende interamente dall'interpretazione di una clausola contrattuale (Cassazione civile , sez. lav., 04 marzo 2005, n. 4714).

L'interpretazione dei contratti collettivi di diritto comune, riservata al giudice del merito, è censurabile in sede di legittimità per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale e per vizi di motivazione. Tale principio non subisce deroga riguardo ai contratti collettivi integrativi per i dipendenti degli enti pubblici non economici, atteso che l'art. 64, comma 3, d.lg. 30 marzo 2001 n. 165, nel prevedere che il ricorso per cassazione possa essere proposto anche per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche, non può trovare applicazione in relazione ai contratti collettivi integrativi di cui al precedente art. 40 dello stesso d.lg. (Nella specie, con riferimento all'interpretazione della clausola del contratto integrativo provvisorio 8 luglio 1998 per i dipendenti dell'Inps, che prevede la corresponsione dell'indennità denominata "salario di professionalità" in favore del personale in servizio alla data dell'1 gennaio 1998, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che, trascurando il testuale riferimento temporale contenuto nella clausola in questione, aveva riconosciuto il diritto alla precedente indennità anche in relazione ai dipendenti assunti dopo tale data) (Cassazione civile, sez. lav., 17 agosto 2004, n. 16059).

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