Le amministrazioni comunali possono regolare l'attività degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici, a termini dell'art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267 del 2000 (nel testo applicabile ratione temporis), graduando, in funzione della tutela dell'interesse pubblico prevalente, gli orari di apertura e chiusura al pubblico.
Ritenuto in fatto:
La Bru-Nello S.r.l. proponeva opposizione contro ordinanze ingiunzione emesse dal Comune di Bologna che contestavano tutte la violazione delle prescrizioni contenute nell'ordinanza comunale n. 228958 del 28 settembre 2012, limitatrice dell'orario di chiusura notturno degli esercizi ubicati in un tratto della locale via Petroni.
L'opposizione era rigettata dal giudice di pace, con sentenza confermata in grado d'appello dal Tribunale di Bologna.
Per la cassazione della sentenza la società ha proposto ricorso, affidato a due motivi, illustrati con memoria.
Il Comune di Bologna ha resistito con controricorso.
Considerato in diritto:
Il primo motivo denuncia errata e illogica interpretazione della legge (art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c.).
La ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui questa ha riconosciuto le sanzioni legittimamente irrogate sulla base di ordinanza sindacale emessa ai sensi dell'art. 50 del d.lgs. 267 del 2000.
La società sostiene che tale norma di carattere generale non accorda al sindaco il potere di imporre limitazione agli orari di apertura dei locali.
Siffatta possibilità è invero prevista dall'art. 13 del Regolamento comunale di Polizia Urbana, subordinatamente alla mancata adesione degli interessati rispetto alla richiesta di assunzione di precisi impegni di cui al terzo comma della norma stessa: tale presupposto nella specie mancava.
Il motivo è infondato.
Le amministrazioni comunali possono regolare l'attività degli esercizi commerciali, dei pubblici esercizi e dei servizi pubblici, a termini dell'art. 50, comma 7, del d.lgs. n. 267 del 2000 (nel testo applicabile ratione temporis), graduando, in funzione della tutela dell'interesse pubblico prevalente, gli orari di apertura e chiusura al pubblico.
Tale potere è stato ridimensionato nei suoi contenuti dall'art. 31 del d.l. n. 201 del 2011, convertito nella L. n. 214 del 2011 (c.d. decreto "salva Italia"), che ha riformato l' art. 3 del D.L. n. 223 del 2006 statuendo, che "le attività commerciali, come individuate dal d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114, e di somministrazione di alimenti e bevande sono svolte senza i seguenti limiti e prescrizioni ... (quali) il rispetto degli orari di apertura e di chiusura, l'obbligo della chiusura domenicale e festiva, nonché quello della mezza giornata di chiusura infrasettimanale dell'esercizio".
Tuttavia «la circostanza che il regime di liberalizzazione degli orari sia applicabile indistintamente agli esercizi commerciali e a quelli di somministrazione, non preclude all'amministrazione comunale la possibilità di esercitare il proprio potere di inibizione delle attività, per comprovate esigenze di tutela dell'ordine e della sicurezza pubblica, nonché del diritto dei terzi al rispetto della quiete pubblica» (Cons. Stato, 30 giugno 2014, n. 3271).
Il secondo motivo denuncia mancato esame di aspetto decisivo del giudizio (art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c.).
La ricorrente evidenzia che le esigenze sottese all'ordinanza sindacale, costituente il presupposto delle sanzioni irrogatele, ricorrevano pure per altre zone del centro universitario di Bologna, tanto è vero che con ulteriore provvedimento, emesso dopo la definizione della causa in grado d'appello, il Sindaco aveva esteso ad esse il medesimo regime adottato per via Petroni.
Il tribunale non avrebbe considerato che, in forza dei documenti prodotti, quella condizione era già in essere all'atto della emanazione di quella stessa ordinanza, conseguendone un vizio di legittimità tale da giustificare la disapplicazione del provvedimento amministrativo.
Il motivo è infondato.
Tale aspetto è stato considerato dal giudice di merito, per cui il ricorrente censura in effetti la logicità e la sufficienza della motivazione con la quale il rilievo è stato superato. Il vizio di motivazione, però, non è più censurabile in cassazione ai sensi dell'art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c. nel nuovo testo applicabile ratione temporis (Cass., S.U., n. 8053/2014).
Nell'ambito del motivo in esame la ricorrente rimprovera al tribunale di avere considerato in modo parziale la circostanza della contemporanea pendenza del giudizio amministrativo promosso per l'annullamento dell'ordinanza sindacale.
Esso, infatti, aveva posto l'accento, a discapito della ricorrente, sul fatto che il giudice amministrativo aveva negato la sospensione del provvedimento, mentre avrebbe dovuto disporre la sospensione del giudizio civile in attesa della decisione di merito.
La censura è infondata: nella specie non ricorreva una ipotesi di sospensione necessaria del processo.
«La pregiudiziale amministrativa (da ritenersi configurabile anche in presenza del nuovo testo dell'art. 295 c.p.c., che pure non ne reca più l'esplicita menzione) può astrattamente sussistere solo nel caso in cui il giudice amministrativo sia chiamato a definire questioni di diritto soggettivo nell'ambito di attribuzioni giurisdizionali esclusive, ma non nel caso di controversia avente ad oggetto l'impugnazione di provvedimenti a tutela di interessi legittimi, potendo il giudice ordinario disapplicare tali provvedimenti, a tutela dei diritti soggettivi influenzati dagli effetti degli stessi» (Cass. n. 1607/2018; conf. 12901/2013, richiamata dagli stessi ricorrenti).
In conclusione il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza.
Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto - ai sensi dell'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stat o - Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater all'art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 - della sussistenza dell'obbligo del versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in C 1.300,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese forfetarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in C 200,00, ed agli accessori di legge; dichiara ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012 la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile, il 15 marzo 2018.