Spetta il risarcimento dei danni dal marito, il quale aveva diffuso la notizia della relazione extraconiugale da lei intrapresa e l’aveva aggredita provocandole la frattura delle ossa nasali.
La Corte rilevato che:
- Il Tribunale di Chieti, con sentenza 21/2008, accoglieva domanda di risarcimento di danno morale (per l'importo di C 25.000) e biologico (per l'importo di C 15.500) proposta da Carmela Carafone nei confronti dell'ex coniuge Roberto Ciccocioppo, avendo accertato che il convenuto aveva diffamato l'attrice diffondendo che aveva una relazione extraconiugale e l'aveva aggredita fratturandole ossa nasali;
- il Ciccocioppo proponeva appello, adducendo che la sua ex moglie avrebbe ammesso la sua relazione extraconiugale, che egli sarebbe stato vittima di due aggressioni (una il 18 agosto 1999 e l'altra il 20 agosto 2003) da lei, con danni per C 44.889,80, che non sarebbe stato provato il quantum del danno da pretesa diffamazione, che non sarebbe stato sussistente l'elemento psicologico per la diffamazione e che in sede penale la controparte sarebbe stata condannata per una delle due aggressioni - quella del 1999 - nonostante ciò venendo rigettata la sua domanda riconvenzionale;
controparte si costituiva resistendo e la Corte d'appello di L'Aquila, con sentenza del 19 luglio-16 agosto 2016, rigettava il gravame;
- il Ciccocioppo ha presentato un ricorso articolato in due motivi e illustrato pure con memoria, da cui si difende con controricorso l'ex coniuge;
- il motivo A lamenta, ex articolo 360, primo comma, n.3 c.p.c., violazione e/o falsa applicazione degli articoli 1226, 2056, 2059, 2697, primo comma, 2729 c.c., 112, 115 e 116 c.p.c. e il motivo B denuncia omessa motivazione in ordine alla prova del danno alla reputazione della ex coniuge e alla prova delle condizioni economiche dell'attuale ricorrente;
- i due motivi sono esposti congiuntamente: lamenta il ricorrente che il giudice d'appello "non dà conto" del danno alla reputazione della controparte, e quindi dell'incidenza della notizia sulla vita di relazione della diffamata e delle sue sofferenze, la sola prova del fatto lesivo non dimostrando il danno; inoltre il giudice d'appello, ad avviso del ricorrente, non si è rapportato, determinando il quantum, le condizioni economiche dell'attuale ricorrente, mentre avrebbe — dovuto considerarle per "soddisfare la funzione punitiva";
ritenuto che:
- preliminarmente si osserva che nella memoria il ricorrente lamenta un asserito scarno tenore della proposta del relatore: doglianza che non tiene in conto l'attuale testo del primo comma dell'articolo 380 bis c.p.c., che, a differenza di quello previgente in cui il relatore doveva depositare "una relazione con la concisa esposizione delle ragioni che possono giustificare la relativa pronuncia", ora statuisce che il relatore propone una "proposta", in relazione alla quale il presidente fissa con decreto l'adunanza "indicando se è stata ravvisata un'ipotesi di inammissibilità, di manifesta infondatezza o di manifesta fondatezza del ricorso"; da ciò discende che la proposta non deve indicare altro, non dovendo quindi essere motivata (v. Cass. sez. 6-3, ord. 22 febbraio 2017 n. 4541: "In materia di procedimento di legittimità, l'articolo 380-bis c.p.c., come modificato dall'articolo 1-bis del d.l. n. 168 del 2016 (conv., con modif., dalla I. n. 197 del 2016), non prevede che la "proposta" del relatore di trattazione camerale possa e debba essere motivata, potendo essa contenere sommarie o schematiche indicazioni, ritenute dal presidente meritevoli di segnalazione alle parti, al momento della trasmissione del decreto di fissazione della camera di consiglio, al fine di una spontanea e non doverosa agevolazione nell'individuazione dei temi della discussione, senza che possa riconoscersi un loro corrispondente diritto."); e ciò è strutturalmente logico, dal momento che la proposta del relatore non può in alcun modo vincolare la decisione del collegio;
- i due motivi, anche a prescindere dalla - di per sé non corretta - illustrazione congiunta che ne offre il ricorrente, risultano entrambi inammissibili: l'inammissibilità, tanto quanto alla censura in jure di cui al motivo A quanto alla censura motivazionale di cui al motivo B, discende dal fatto che, pur avendo nella esposizione del fatto il ricorso riportato un'ampia parte della motivazione della sentenza impugnata, di questa tuttavia non si tiene conto in alcun modo nella congiunta illustrazione dei motivi stessi, se non limitatamente alla presenza nell'esordio della motivazione del riferimento al danno in re ipsa, il quale, peraltro, ictu oculi non sorregge la motivazione - che infatti raggiunge l'accertamento dell'esistenza del danno individuandolo nella "derisione" e nel "pubblico discredito" subiti dalla vittima, dileggiata e "additata come una poco di buono ed una prostituta" dalle pervicaci "chiacchiere infamanti" del suo ex coniuge -; - invero, il motivo di ricorso per cassazione deve necessariamente risolversi, in considerazione della sua natura impugnatoria, nella critica della motivazione della sentenza impugnata, onde si presenta inidoneo al suo ontologico scopo se non individua la motivazione oggetto di critica, in tal modo non pervenendo, in ultima analisi, ad effettuare una concreta critica, dal momento che quest'ultima non può prescindere da un oggetto su cui focalizzarsi; il che vale pure nel caso in cui si imputi alla motivazione di aver omesso di considerare un determinato elemento, occorrendo allora individuare nella sentenza lo specifico passo motivazionale da cui emergerebbe l'omissione, dovendosi rispettare la necessaria specificità impugnatoria sancita dall'articolo 366, primo comma, n.6 c.p.c. (v. da ultimo, in motivazione, S.U. 20 marzo 2017 n. 7074 e S.U. 5 agosto 2016 n. 16598); - meramente ad abundantiam, a questo punto, si rimarca l'assoluta non pertinenza dell'argomento relativo alle condizioni economiche del danneggiante in relazione alla determinazione del quantum del danno risarcibile, il cui parametro non può non essere oggettivo, id est non variante a seconda del soggetto autore della condotta dannosa;
Il Presidente ritenuto che quindi il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con conseguente condanna del ricorrente alla rifusione delle spese del grado - liquidate come da dispositivo - alla controricorrente;
ritenuto altresì che l'assoluta inammissibilità del ricorso, proposto avverso una sentenza qualificabile come doppia conforme in rapporto a quella pronunciata dal giudice di primo grado senza addurre, appunto, alcuna effettiva confutazione della sentenza stessa, bensì in realtà pretermettendone il contenuto tamquam non esset, ovvero contravvenendo in toto alla struttura impugnatoria attraverso la quale deve essere adito il giudice di legittimità, manifesta chiaramente colpa grave del ricorrente nella proposizione del ricorso, così da condurre all'applicazione dell'articolo 385, quarto comma, c.p.c., nella presente causa ratione temporis consentita (cfr. Cass. sez. 3, 14 ottobre 2016 n. 20732, Cass. sez. 6-3, ord. 22 febbraio 2016 n. 3376, Cass. sez. 3, 12 marzo 2015 n. 4930 e Cass. sez. 3, 20 gennaio 2015 n. 817), condannando pertanto il ricorrente a pagare alla controparte una somma che, in un'ottica equitativa come richiesto dalla legge - ottica che tiene conto, naturalmente, non solo della conformazione del ricorso ma pure dell'oggetto della controversia e dello svolgimento complessivo della stessa nei gradi precedenti -, si ritiene di dover determinare nella misura di € 2000;
ritenuto infine che sussistono ex articolo 13, comma 1 quater, d.p.r. 115/2012 i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso, condannando il ricorrente a rifondere alla controricorrente le spese processuali, liquidate in complessivi € 6500, oltre a € 200 per gli esborsi e al 15% per spese generali, nonché agli accessori di legge; condanna altresì il ricorrente a corrispondere alla controricorrente ex articolo 385, quarto comma, c.p.c. la somma di € 2000.
Ai sensi dell'articolo 13, comma 1 quater, d.p.r. 115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
Così deciso in Roma, il 13 dicembre 2017