Si considera nullo, in quanto intimato in frode alla legge, il licenziamento comminato a più lavoratori a seguito di una scissione societaria apparente.
FATTI DI CAUSA
Con sentenza in data 28 aprile 2016, la Corte d'appello di Cagliari, sez. dist. di Sassari rigettava l'appello Proposto da Meccanica Immobiliare e Servicing s.r.l. avverso la sentenza di primo grado, che, in esito a procedimento ex lege 92/2012, aveva accertato la nullità del licenziamento intimato dalla società il 14 marzo 2014 per giustificato motivo oggettivo ad Alessandro Casula e condannato la medesima alla sua reintegrazione nel posto di lavoro e al risarcimento del danno in suo favore, in misura pari alle retribuzioni globali di fatto dalla data di licenziamento a quella di effettiva reintegrazione, dedotto l'aliunde perceptum.
A motivo della decisione, la Corte territoriale condivideva l'accertamento del Tribunale di nullità del licenziamento intimato in frode alla legge, per essere l'operazione complessivamente realizzata, attraverso scissione parziale proporzionale da Meccanica Immobiliare e Servicing s.r.l. (già Meccanica Costruzioni s.p.a. poi s.r.I.) alle due società di nuova costituzione Manutenzione e Montaggi s.r.l. e Meccanica Costruzioni s.r.l. (incidentalmente sindacabile, senza preclusione per impronunciabilità della sua invalidità, a norma degli artt. 2506ter e 2504quater c.c., non essendovi questione di vizi interni all'atto o al procedimento) e la suddivisione dei lavoratori tra le tre società, nell'identità di svolgimento di mansioni nell'unico capannone e con le stesse attrezzature, ad evasione della medesima commessa, sia prima che dopo la scissione societaria (con perfezionamento dell'atto il 25 novembre 2013), gestita indistintamente tra i tre diversi soggetti (formalmente autonomi ma facenti capo agli stessi soci). E ciò per la finalità elusiva di norme imperative di legge, in ordine alla tutela reale prevista dalla disciplina per i licenziamenti collettivi (ricorrendone i presupposti, ai sensi della legge 223/1991), essendo stati intimati nell'arco temporale di centoventi giorni plurimi licenziamenti per giustificato motivo oggettivo a dodici lavoratori (distribuiti, come detto, tra le tre società e tra i quali il ricorrente appellato), comportanti una tutela indennitaria.
Avverso tale sentenza la società, con atto notificato il 4 luglio 2016, ricorreva per cassazione con tre motivi, illustrati da memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c., cui resisteva il lavoratore con controricorso. La società provvedeva quindi alla sostituzione del difensore avv. Pietro Giva, rinunciante al mandato, con il nuovo difensore avv. Giovanni Battista Luciano.
RAGIONI DELLA DECISIONE
- Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2506ter, 2504quater c.c., anche in relazione con gli artt. 1418, primo comma, 1344, 1345 c.c., per esclusione della possibilità di una pronuncia giudiziale di invalidità dell'atto di scissione una volta iscritto (e pure in assenza di opposizioni), con la sua conseguente intangibilità per l'efficacia sanante dell'iscrizione in riferimento ad ogni vizio dell'atto o del procedimento, in assenza poi di alcun positivo accertamento del supposto intendimento fraudolento dell'operazione, assolutamente lecita, in difetto di prova degli elementi che l'avrebbero integrato, né tanto meno della (in)sussistenza del giustificato motivo oggettivo a base del licenziamento intimato.
- Con il secondo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1344, 1345, 1346 c.c., anche in relazione agli artt. 2112 c.c. e 24 I. 223/1991, per esclusione della finalità fraudolenta della funzione del negozio di scissione, integrante non già illiceità della causa ma al più frode nei confronti di terzi, quali i lavoratori e pertanto non un'ipotesi di nullità: in assenza di alcun nesso positivamente accertato tra il negozio e i licenziamenti intimati, per giustificato motivo oggettivo; costituendo poi il sindacato giudiziale esercitato un'indebita interferenza sull'autonomia dell'iniziativa imprenditoriale, anche sotto il profilo della circolazione dell'azienda, sotto cui sussumibile anche la scissione, non assicurante la tutela del posto di lavoro, ma esclusivamente dei crediti e dei diritti acquisiti coinvolti dal trasferimento d'azienda ed in ogni caso non configurandosi negozio in frode alla legge per il solo fatto di un mutamento di assetto imprenditoriale comportante diversità di tutele, indennitaria piuttosto che reale.
- Con il terzo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727, 2729 c.c., 115, primo comma c.p.c., pure in relazione all'art. 1344 c.c., per carenza di prova, anche per non corretta applicazione delle regole in materia di prova presuntiva, avendo la Corte territoriale tratto una presunzione (la natura fraudolenta dell'operazione) da un altro fatto (non già noto, ma) presunto (l'illegittimità del licenziamento), sulla base di elementi (quali la supposta continuità di prestazione dai lavoratori, formalmente ripartiti tra la società scissa e le due beneficiarie, nelle medesime mansioni e nell'identico contesto lavorativo precedente, nella promiscuità di utilizzazione delle attrezzature e di soggezione a direttive indifferentemente impartite dai superiori gerarchici dell'una o dell'altra società: con approdo ad un'erronea valutazione probatoria di "situazione di confusione o confondibilità delle rispettive attività" ) smentiti dalla documentazione relativa alle risultanze dell'operata scissione: nell'irrilevanza della indebitamente valorizzata "identità soggettiva della compagine sociale delle tre società coinvolte" ed avuto infine riguardo, in riferimento alla ravvisata lesione della garanzia patrimoniale dei lavoratori, alla responsabilità solidale delle società beneficiarie dei debiti insoddisfatti della società scissa, nei limiti dell'effettivo patrimonio netto ad esse assegnato.
- Il primo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 2506ter, 2504quater c.c., anche in relazione con gli artt. 1418, primo comma, 1344, 1345 c.c., per esclusione della possibilità di una pronuncia giudiziale di invalidità dell'atto di scissione una volta iscritto, in assenza pure di alcun accertamento del supposto intendimento fraudolento dell'operazione, è infondato.
4.1. In via di premessa, occorre ribadire la preclusione di carattere assoluto della declaratoria di invalidità dell'atto di fusione sancita dall'art. 2504quater c.c., quale effetto dell'iscrizione nel registro delle imprese, a tutela dell'affidamento dei terzi e della certezza dei traffici, in riferimento alla deduzione di vizi tanto inerenti direttamente all'atto di fusione, quanto concernenti il procedimento di formazione dell'atto e della sua iscrizione (Cass. 1 giugno 2012, n. 8864), richiamata anche per le operazioni di scissione dall'art.2504novies (oggi art. 2506 ter) c.c.: e ciò anche qualora si asserisca la mera preordinazione dell'impugnativa ad una futura ed ipotetica azione di risarcimento del danno nei confronti degli amministratori o di terzi (Cass. 20 dicembre 2012, n. 28242, sull'individuazione dell'oggetto della pronuncia richiesta per l'appunto nella declaratoria di nullità o nell'annullamento della delibera).
4.2. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha dato espresso ed argomentato conto di una tale preclusione e della sua ratio (al terzo e quarto capoverso di pg. 4 della sentenza), individuando correttamente i presupposti di configurazione del contratto in frode alla legge "laddove il contratto in sé lecito realizzi, anche mediante la combinazione con altri atti giuridici, un risultato vietato dalla legge", con argomentata disamina critica della finalità (perseguita con l'operazione di scissione) vietata dalla legge, individuata nell'elusione della disciplina sui licenziamenti collettivi (artt. 4 e 5 I. 223/1991), in virtù del "collegamento negoziale fra l'operazione societaria ed i plurimi e successivi licenziamenti" (per le ragioni esposte dal primo capoverso di pg. 5 al terz'ultimo capoverso di pg. 6 della sentenza).
4.3. Ed essa ha fatto esatta applicazione dei principi di diritto regolanti la materia, secondo cui la peculiarità del contratto in frode alla legge, regolato dall'art. 1344 c.c., consiste nel fatto che gli stipulanti raggiungono, attraverso gli accordi contrattuali, il medesimo risultato vietato dalla legge: con la conseguenza che, nonostante il mezzo impiegato sia lecito, è illecito il risultato che attraverso l'abuso del mezzo e la distorsione della sua funzione ordinaria si vuole in concreto realizzare (Cass. 26 gennaio 2010, n. 1523). Sempre nell'ambito dell'illiceità della causa, non si ha invece contratto in frode alla legge (art.. 1344 c.c.), bensì in violazione di disposizioni imperative (art. 1343 c.c.), qualora le parti perseguano il risultato vietato dall'ordinamento, non già attraverso la combinazione di atti di per sé leciti, ma mediante la stipulazione di un contratto la cui causa concreta si ponga direttamente in contrasto con disposizioni di tale natura (in particolare, urbanistiche: Cass. 7 ottobre 2008, n. 14769): e concernenti la validità del contratto, non già il comportamento dei contraenti, che può essere fonte di responsabilità (Cass. s.u. 19 dicembre 2007, n. 26724; Cass. 10 aprile 2014, n. 8462). Né la violazione di una norma imperativa produce necessariamente la nullità del contratto, ma soltanto qualora, a norma dell'art. 1418, primo comma c.c., "la legge" non "disponga diversamente" : con onere per l'interprete di accertare se il legislatore, anche nel caso di inosservanza del precetto, abbia consentito la validità del negozio predisponendo un meccanismo idoneo a realizzare gli effetti voluti della norma (Cass. 11 dicembre 2012, n. 22625; Cass. 28 settembre 2016, n. 19196). Tuttavia, nel caso di specie non esiste una siffatta diversa previsione di legge, che non può evidentemente essere individuata, come infondatamente prospettato dalla ricorrente, nella "scissione sebbene condizionata al periodo di tempo in cui chiunque vi abbia interesse vi si opponga" (così sub b, a pg. 14 del ricorso), in quanto atto lecito e non più invalidabile, dovendosi piuttosto far riferimento alla disciplina in materia di licenziamenti collettivi: elusa, proprio attraverso la complessiva operazione negoziale, di cui la scissione societaria ha costituito una parte essenziale e che integra, per le ragioni dette, un contratto in frode alla legge.
- Il secondo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 1344, 1345, 1346 c.c., anche in relazione agli artt. 2112 c.c. e 24 I. 223/1991, per esclusione della finalità fraudolenta della funzione del negozio di scissione, non integrante illiceità della causa, anche in considerazione della sua sussumibilità nella categoria del trasferimento d'azienda, è infondato.
5.1. Deve, infatti, essere ribadita, per le ragioni illustrate, la finalità fraudolenta del negozio di scissione in collegamento con i licenziamenti intimati. E ciò per avere la Corte territoriale accertato il nesso causale in riferimento al "mutamento rivelatosi solo formale in ordine allo svolgimento delle attività lavorative ed a fronte della realizzazione nel tempo trascorso fra la scissione e i licenziamenti di un'unica commessa", nell'evidente "effetto ottenuto con la scissione, consistente nella frammentazione della forza lavoro fra tre distinte società ... pur continuando ad operare come soggetto indistinto ... con il risultato di sottrarsi alla disciplina ... in tema di licenziamenti collettivi" (così all'ultimo capoverso di pg. 10 della sentenza).
5.2. Una tale operazione integra, come pure già detto, ipotesi di illiceità della causa del contratto (Cass. 6 aprile 2018, n. 8499); non già un'ipotesi di mera frode nei confronti dei terzi, che si esaurisca, in assenza di una norma di divieto del comportamento (invece esistente nel caso di specie), nel mero intento delle parti di recare pregiudizio ad altri, in sé non illecito (Cass. 4 ottobre 2010, n. 20576), ma eventualmente sanzionabile di inefficacia (Cass. 31 ottobre 2014, n. 23158).
5.3. Né, per la stessa ragione di illiceità dell'operazione sia pure sussumibile nella più generale vicenda circolatoria dell'azienda (essendo stati ceduti alle due società beneficiarie della scissione, di nuova costituzione, due rami d'azienda), ricorre qui l'ipotesi di una cessione comportante situazioni, sia pure in atto, che possano condurre agli esiti regolati dalla legge n. 223/1991 (in materia di Cassa integrazione, di mobilità, di trattamenti di disoccupazione), non essendo enucleabile dal sistema di garanzie da essa apprestato un precetto che ciò vieti, ovvero che consenta di cederla solo a condizione che non sussistano elementi tali da rendere inevitabili quegli esiti: con la conseguenza di escludere la ricorrenza di un contratto in frode alla legge nella cessione di azienda, motivata dall'intento di addossare ad altri la titolarità di obblighi ed oneri conseguenti, ad un soggetto che, per le sue caratteristiche imprenditoriali ed in base alle circostanze del caso concreto, renda probabile la cessazione dell'attività produttiva e dei rapporti di lavoro (Cass. 2 maggio 2006, n. 10108; Cass. 20 marzo 2013, n. 6969).
5.4. Nel caso di specie ricorre piuttosto, come già ritenuto, la diversa ipotesi di frode alla legge, in funzione di clausola generale di tipizzazione delle condotte tenute in violazione di norme imperative. Ed essa è stata integrata: dalla chiara finalità di violare una norma imperativa di natura materiale (quale la disciplina regolante i licenziamenti collettivi, nella ricorrenza dei presupposti della legge 223/1991: Cass. 9 ottobre 2000, n. 13457), nel senso che sia da essa enucleabile un precetto, non esplicitato, che vieti di raggiungere risultati sostanzialmente equivalenti a quelli espressamente vietati; dall'identità di risultato fra contratto espressamente vietato e contratto mezzo di elusione; manifestazione dell'elusione da indici sintomatici (così, in motivazione: Cass. 2 maggio 2006, n. 10108).
- Il terzo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727, 2729 c.c., 115, primo comma c.p.c., anche in relazione all'art. 1344 c.c. per carenza di prova della erroneamente presunta natura fraudolenta dell'operazione dalla pure presunta illegittimità del licenziamento in base ad elementi smentiti dai documenti dell'operata scissione, è inammissibile.
6.1. Non sussiste la violazione delle norme denunciate, in difetto dei requisiti loro propri di verifica di correttezza dell'attività ermeneutica diretta a ricostruirne la portata precettiva, né di sussunzione del fatto accertato dal giudice di merito nell'ipotesi normativa, né tanto meno di specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata motivatamente assunte in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l'interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 28 novembre 2007, n. 24756; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984).
6.2. In particolare, non si configura violazione dell'art. 2697 c.c., che ricorre soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella che ne sia gravata secondo le regole dettate da quella norma: non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata abbia assolto tale onere, poichè in questo caso vi è soltanto un erroneo apprezzamento sull'esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all'art. 360 n. 5 c.p.c. (Cass. 5 dicembre 2006, n. 19064; Cass. 17 giugno 2013, n. 15107), nei più rigorosi limiti del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439), applicabile ratione temporis.
6.3. Neppure risulta violato l'art. 115 c.p.c., per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito (nel che si risolve nella sostanza il motivo scrutinato), ma soltanto allorché si alleghi che il giudice medesimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d'ufficio al di fuori dei limiti legali (Cass. 27 dicembre 2016, n. 27000).
6.4. Parimenti, deve essere esclusa la violazione dei principi in materia di corretta applicazione del ragionamento presuntivo, non avendo la Corte tratto presunzioni da ulteriori presunzioni, ma da fatti accertati: così in particolare, in riferimento all'illegittimità del licenziamento intimato come individuale anziché collettivo, sul presupposto della fraudolenta elusione della disciplina della legge 223/1991, pure ricorrendone i requisiti applicativi (così al secondo capoverso di pg. 11 della sentenza).
6.5. Sicché, il mezzo si risolve nella contestazione piuttosto dell'accertamento in fatto e della valutazione probatoria della Corte territoriale, esclusivamente riservati al giudice di merito e insindacabili in sede di legittimità; per giunta, in una sostanziale reiterazione di argomentazioni già prospettate in appello (come si evince dalla loro ripresa sub b dall'ultimo capoverso di pg. 6 all'ultimo di pg. 7 della sentenza) e debitamente confutate dalla Corte territoriale (per le argomentate ragioni illustrate in particolare a pgg. da 8 a 10 della sentenza), tanto meno censurabili alla luce del più rigoroso ambito devolutivo del novellato testo dell'art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.
- Dalle superiori argomentazioni discende allora coerente il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza, con distrazione al difensore antistatario del lavoratore, secondo la sua richiesta.
P.Q.M.
La Corte
rigetta il ricorso e condanna la società alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in C 200,00 per esborsi e C 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge, con distrazione al difensore antistatario.
Ai sensi dell'art. 13 comma l quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma il 19 aprile 2018